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Si è spento il filosofo Karl-Otto Apel
Ieri, 15 maggio, nella sua casa di Niedernhausen in Germania, si è spento all'età di 95 anni Karl-Otto Apel, uno dei filosofi che ha segnato in maniera indelebile il pensiero contemporaneo. Era appena uscito il suo ultimo libro Transzendentale Reflexion und Geschichte, pubblicato agli inizi di marzo dalla casa editrice Suhrkamp. A lui va il merito di aver fondato un nuovo indirizzo di pensiero, la pragmatica trascendentale, portando all’ultima conseguenza la fondazione dell’etica del discorso. Contro lo spirito di detrascendentalizzazione della filosofia, Apel ha ripreso e sviluppato la riflessione trascendentale di Kant sulle condizioni di possibilità di validità delle pretese di verità, confrontandosi, per un verso, con la filosofia di provenienza metafisico-ontologica, per altro verso con la filosofia metafisico-coscienzialistica o del soggetto, nonché con le scoperte ermeneutiche e fenomenologiche che si dimostrano indispensabili anche in chiave trascendentalsemiotica così come teorizzata da Apel nell’ambito delle condizioni delle scienze sociali e spirituali in generale. Il progetto apeliano di trasformazione-ricostruzione in chiave trascendentalermeneutica della filosofia kantiana e moderna in generale, nonché di fondazione ultima della filosofia teoretica e pratica, è un tentativo di elaborazione di un nuovo paradigma, di un terzo paradigma della philosophia prima successivamente ai paradigmi di Aristotele e di Descartes, sulla base di un’impostazione strettamente pragmatico-trascendental-linguistica o appunto semiotica. Nato a Düsseldorf (Germania) il 15 marzo 1922, consegue il Dottorato nell’Università di Bonn nel 1950. Nel 1961 ottiene l’abilitazione alla libera docenza nell’Università di Mainz. Come ordinario di Filosofia esercita la docenza dal 1962 al 1969 nell’Università di Kiel; dal 1969 al 1972 nell’Università di Saarbrücken, finché si trasferisce a Francoforte nell’Università “Johann Wolfgang Goethe” in cui è professore emerito dal 1990. Più volte visiting professor in molte università americane e europee, nella sua lunga e prestigiosa carriera è stato insignito di innumerevoli premi e riconoscimenti e ha ricevuto più volte lauree honoris causa.
Tra le sue opere, tradotte in italiano:
Comunità e
comunicazione
(1977); L’idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico
(1975); Etica della comunicazione
(1992); Discorso, verità,
responsabilità. Le ragioni della fondazione: con Habermas contro
Habermas (1997); Lezioni di
Aachen e altri scritti (2004);
Cambiamento di paradigma. La ricostruzione trascendentalermeneutica
della filosofia moderna (2005);
Ermeneutica e filosofia
trascendentale in Wittgenstein, Heidegger, Gadamer, Apel (2006).
Il 19 ottobre 2015 l'Università della Calabria gli ha conferito la laurea honoris causa in Scienze della Formazione Primaria. Per delineare l'attualità del pensiero del grande filosofo, riportiamo il testo del discorso tenuto da Michele Borrelli (suo amico e collaboratore, presidente del Centro filosofico internazionale Karl-Otto Apel) in occasione del conferimento della Laurea honoris causa in “Scienze della Formazione Primaria” da parte dell’Università degli Studi della Calabria.
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Michele Borrelli*
L’etica del discorso
Lectio
magistralis
per il conferimento della Laurea Magistrale
ad honorem
in “Scienze
della formazione primaria” a Karl-Otto Apel[1]
Riassunto Il testo discute l’attualità del pensiero
filosofico di Karl-Otto Apel in un confronto serrato con le posizioni di
Derrida, Foucault, Lyotard, Rorty, Wittgenstein e Gadamer. Contro tutti
i disfattismi della ragione, l’etica
del discorso (prima nella versione Habermas/Apel, successivamente
nel senso di fondazione ultima in cui la intende Apel) dimostra come si
può giungere (per via discorsiva e non per deduzione metafisica) alla
fondazione di principi etici (e anche della filosofia e della scienza in
generale). La discorsività è strutturalmente legata all’etica (del
discorso) e non ha bisogno di fondamenti metafisici. Il
logos (a priori) del
linguaggio precede anche le singole posizioni filosofiche e costituisce,
pertanto, una istanza di fondazione discorsiva inaggirabile anche per
chi rifiuti il discorso.
Parole chiave:
Etica, discorsività, fondazione, linguaggio, a priori.
Abstract
The ethics of discourse
Lectio magistralis delivered on the occasion of the conferral of the
Honorary Degree in Primary Teacher Education to Karl-Otto Apel, by
University of Calabria (UNICAL) - October 19, 2015 This essay
discusses the actuality of philosophical thought of Karl-Otto Apel in a
close comparison with the positions of Derrida, Foucault, Lyotard,
Rorty, Wittgenstein and Gadamer. Against all the defeatism of reason,
the discourse ethics (first in
the version Habermas/Apel, subsequently in the sense formulated from
Apel of ultimate grounding) demonstrates how you can reach (via
discursive and not for metaphysical deduction) to the foundation of
ethical principles (and also of philosophy and science in general).
Keywords:
Ethics, discursivity, foundation, language, a priori.
Qualunque sia il significato che si voglia assegnare alle dispute
attuali, l’approccio filosofico di Karl-Otto Apel rappresenta un punto
di approdo del discorso filosofico
contemporaneo. Ovviamente, l’ipotesi vale se concordiamo su alcuni
presupposti che riguardano il
senso del discorso filosofico
in un’epoca di dominio della razionalità scientifico-tecnologica
come la nostra. Immagino che tutti condividano il bisogno di un discorso
filosofico che non giri a vuoto su se stesso come una mosca imprigionata
sotto un bicchiere, ma sappia rispondere alle sfide dei nostri tempi. Il
discorso filosofico è, per
questo, imprescindibile dall’etica. Etica non sta qui per discorsi
tradizionali che conosciamo attraverso lunghe dispute filosofiche, ma
per principio di responsabilità
morale che vede tutti noi obbligati a misurarci con problemi di
portata planetaria, in parte dovuti ad un uso sregolato dei potenziali
tecnici. Per Apel, in quest’epoca della tecnica globalizzata diventa
sempre più pressante e necessaria l’elaborazione di un’etica
universalmente valida che sappia anche rispondere alla richiesta globale
di giustizia sociale. È una richiesta etica che, però, deve fare i conti
con l’idea di razionalità che l’Occidente ha portato e porta tuttora
avanti.
Sappiamo che il concetto di
razionalità si è sviluppato sotto il segno della
scienza e ciò, dopo Max Weber[2],
ha avuto la conseguenza disastrosa di far credere che la nostra
razionalità fosse
assolutamente neutrale e che non avesse, quindi, niente in comune con
l’etica e la sua universalizzazione. Conclusione, per Apel, errata che è
documentabile fin nella Dialettica
dell’illuminismo[3]
di Max Horkheimer e Theodor Adorno.
Dopo la barbarie di Auschwitz, non più certi delle possibilità
conoscitive della dialettica, Horkheimer e Adorno abbandonano l’idea che
la ragione umana possa concretizzarsi in un progetto etico
generalizzabile. Finita sotto accusa, la ragione è diventata sempre più
oggetto di contestazione, per sconfinare non solo in una profonda
crisi, ma in un generale
disfattismo (per usare un
termine molto preciso di Habermas[4]).
La ragione avrebbe sbagliato tutto. Sbagliata sarebbe tutta la nostra
cultura. Sbagliata sarebbe sicuramente tutta la modernità, che dovremmo
oltrepassare. Come dice Heidegger, dovremmo superare tutta questa
tradizione e la metafisica[5]
che è stata elevata su questa ragione e sul suo
ideale di progresso. Dovremmo liquidare una ragione che,
nell’analisi di qualche famoso postmodernista[6],
ci ha condotto – con la sua violenza intrinseca – ad Auschwitz. Dovremmo
lasciare dietro di noi una ragione della violenza per qualcosa che,
però, non si capisce bene che cosa sia, per qualcosa di ‘post’ di cui
non si riesce a cogliere bene il significato. Almeno Apel non riesce a
capire il senso di questa richiesta. Quando, proprio a partire da
Auschwitz, dobbiamo chiederci non solo come sia stata possibile l’eclissi
della ragione, sulla quale hanno scritto pagine importanti
Horkheimer e Adorno[7],
ma chiederci anche (e con lo stesso Adorno): che cosa possiamo fare
affinché una barbarie del genere non si ripeta mai più[8]?
Ma questa, per Apel, è nuovamente una richiesta etica. L’esperienza
storica di Auschwitz e i rischi di un mondo sempre più in balia dei suoi
potenziali tecnici (rischi di cui ha scritto bene il sociologo tedesco
Ulrich Beck[9])
ci dicono che l’esigenza di etica, l’esigenza, diciamo, di un’etica
minima universalmente condivisibile, rappresenta non
uno tra i tanti pensabili
imperativi ma l’imperativo
prioritario della nostra epoca.
Ciò anticipato, passo velocemente alla
trasformazione trascendental-semiotica della filosofia che Apel –
tenuto conto di quanto appena detto – ha sviluppato in una
configurazione appunto etica, cioè nella forma dell’etica
del discorso. Un approccio che parte dal primo paradigma della
filosofia prima (il paradigma
dell’essere) al quale è
seguito il paradigma del soggetto
(della modernità) e, infine, il paradigma della
comunità comunicativa, prima
nella versione in comune con Habermas e poi nella concezione ultima di
etica del discorso, nella
peculiare formulazione di Karl-Otto Apel, distinta dal modello
precedentemente elaborato insieme a Jürgen Habermas. Di qui i termini
apeliani conosciuti in Europa e nel mondo:
etica del discorso, etica
intersoggettiva o etica della
discorsività. A scanso di equivoci, sia detto che nel paradigma di
Apel non si pensa, sulle orme di Max Scheler e Nicolai Hartmann, ad un’etica
di valori con validità universale, piuttosto ad alcuni
principi formali
consensualmente condivisibili e generalizzabili. Sono principi pensati
oltre il soggettivismo trascendentale di Kant e anche oltre il
soggettivismo trascendental-fenomenologico di Husserl.
Contro tutti i disfattismi postmoderni e non solo, Apel rimane fermo
nella convinzione che, nell’epoca del dominio globalizzato della
tecno-scienza, la filosofia possa
ed anzi debba porsi il compito
di fondare un’etica su
principi capaci di raccogliere il consenso di tutti. Una tesi che vede
Apel agli antipodi del pensiero di Foucault che ritiene una
catastrofe far valere, in
ambito morale, principi universali. Siamo anche agli antipodi rispetto
al pacato Derrida che definisce un “terrorismo del consenso” la
richiesta apeliana di universalizzazione.
Notate in presenza di quale scenario ‘filosofico’ ci troviamo.
Perché affaticarci nella ricerca di principi etici validi per tutti, se
l’ultimo Horkheimer e l’ultimo Adorno diffidano della ragione e Foucault
vede nell’universalizzazione della morale una catastrofe e Derrida una
possibile ricaduta nella dittatura? Sotto il peso distruttivo di questa
critica sferrata da più fronti, chi, come Apel, pensa ad un’etica valida
per tutti, dovrebbe documentare solo l’alto grado della sua
malattia mentale e il bisogno
urgente di essere ricoverato in una clinica psichiatrica. E immagino che
Wittgenstein abbia, in generale, pensato proprio a questa malattia
mentale, vizio congenito della filosofia e del filosofo, quando ha
consigliato a quest’ultimo di usare la filosofia come
auto-terapia[10].
Ma forse le cose non stanno così come pensano Wittgenstein, Derrida,
Foucault e altri.
Perché, completamente contro-tendenza e nonostante i proclami della fine
delle narrazioni (Lyotard)[11],
piccole e grandi, e dei cimiteri della conoscenza aperti ovunque dalla
crisi della ragione, Apel con la sua
etica del discorso, dimostra
il contrario; dimostra come si possono fondare
razionalmente (o, meglio,
discorsivamente) norme e
principi, in senso, appunto, universale, senza cadere in nuove forme
metafisiche di cui la nostra tradizione è ricca. Senza giri di parole:
per Apel l’argomentazione è
una base solida per fondare un’etica che sia valida per tutti, ma anche
per dare fondamento ad ogni altra conoscenza e verità, se di verità
vogliamo ancora parlare – tema, questo, che tra i postmoderni non solo
non è scontato, ma da alcuni è ritenuto superfluo se non dannoso. L’etica
del discorso, come dice il termine stesso, si basa sul discorso. Ma
sul discorso non si basa solo l’etica del discorso. Sul discorso si basa
anche ogni altra conoscenza e verità. Ciò perché è nel discorso, pensato
oggi come comunità semiotica e
comunicativa, che si avvera ogni fondato argomentare e si distingue
tra ciò che è valido e ciò che non è valido. Ed è sempre nel discorso
che avviene il comprendersi su
qualcosa. Anche l’argomentare di chi si oppone al discorso, anche
l’argomentare contro lo stesso discorso, l’argomentare del più radicale
scettico (di colui che non crede in nulla, di quello scettico talmente
scettico che nemmeno se la sente – socraticamente – di affermare
so di non sapere), ebbene
anche quest’ultimo non sfugge alla struttura argomentativa del discorso.
Nel momento in cui lo scettico argomenta (scetticamente) sulla sua
scelta (scettica) è già – come afferma Apel – all’interno del discorso.
Lo scettico deve pur spiegare perché è scettico. E per spiegare il suo
scetticismo e la validità del suo scetticismo, dovrà servirsi di
argomenti validi da introdurre nel discorso. Se, a priori, negassimo al
discorso filosofico di poter
giungere ad un consenso fondato e universalmente valido (nel nostro caso
su norme e principi etici) – che si tratti poi del discorso scientifico
o del discorso filosofico – per quel che riguarda gli effetti, nulla
cambierebbe: le conseguenze sarebbero davvero
catastrofiche e davvero potremmo aprire le porte a forme nuove di
dittature. Un disfattismo del
genere sarebbe catastrofico per ogni nostro
intenderci su qualcosa. Se
negassimo a priori la validità della
ragione discorsiva, verrebbe meno la possibilità di ogni argomentare
(anche di ogni argomentare ermeneutico a cui le scienze sociali,
culturali e storiche si affidano). In questa insensatezza generale,
crollerebbero le condizioni di ogni nostra
comprensione e la stessa
comunicazione (su che cosa
dovremmo comunicare e comprenderci, se tutto è incerto e niente può
essere fondato, se vale tutto e il contrario di tutto?); saremmo fuori
da ogni argomentata e razionale giustificazione, fuori dal senso e dalla
critica del senso, di cui, proprio a partire dalla
svolta linguistica in filosofia,
tanto si è detto. Ma, come se ciò non bastasse, nella corsa a chi
sfascia di più, Derrida si sbarazza anche della nozione di
critica, ritenendola
priva di senso.
Giro allora, con Apel, la domanda in modo diverso: è possibile parlare di
etica (del discorso), di
fondazione dell’etica, di fondazione di norme, di fondazione della
scienza, di fondazione della filosofia o questi interrogativi sono
fantasmi dai quali dobbiamo liberarci, per dedicarci, come
sottolinea l’ultimo Wittgenstein, alla
descrizione di un
linguaggio da intendere come
pratica di vita quotidiana?
Per Wittgenstein, udite udite, l’unico
compito della filosofia è
descrivere queste pratiche
di vita. C’è di più: per Wittgenstein la
verità del linguaggio dipende
dall’uso specifico che se ne
fa nella pratica della vita
quotidiana. Partendo da questo assunto, Wittgenstein può, a ragione,
dedurre: poiché i linguaggi sono vari e sempre diversi, cade la speranza
del filosofo di pensare ad un
linguaggio unitario; cade la pretesa di sperare in un consenso
valido, universalizzabile e da tutti condivisibile. Una filosofia che
rincorre un consenso del genere, diventa un non-senso, un nulla di
fatto: una malattia da curare.
Effettivamente, se valgono i presupposti di Wittgenstein e Heidegger –
fatemelo dire con un po’ di durezza andando un po’ fuori dal linguaggio
pacato di Apel: se valgono le metafisiche taciute, ma non per questo
meno insistenti di Wittgenstein e Heidegger (metafisiche che entrambi
aborriscono, ma nelle quali entrambi cascano continuamente), se siamo
veramente in balia di una fattività storica così deterministica e
determinante dell’accadere dell’essere, di cui parla Heidegger, o nella
morsa dei giochi linguistici, infiniti e sempre diversi, di cui parla
Wittgenstein, viene sul serio meno ogni domanda di fondazione etica, ma
viene meno anche ogni domanda di fondazione filosofica, scientifica,
ecc.; viene meno anche ogni possibilità di comprendersi
universalmente su qualcosa,
perché, a questo punto, tutto è sottomesso ai giochi linguistici, ognuno
dei quali è chiuso e isolato nella sua
pratica di vita quotidiana.
Vorrei ricordare che anche i nazisti avevano il loro gioco linguistico,
il gioco linguistico della pratica
di vita dei forni crematori. Se partissimo dai giochi linguistici e
ci fermassimo ad essi, potremmo legittimare tutto e il contrario di
tutto: potremmo giustificare anche la meno inimmaginabile barbarie. Se
fossimo nelle grinfie di nuovi fantasmi, in questo caso nelle grinfie
dei fantasmi dei giochi linguistici di Wittgenstein o, a nostra
insaputa, dei fantasmi della storia dell’essere di Heidegger, potremmo
congedarci sul serio dalla
filosofia, anzi, non solo dalla filosofia ma anche dal
pensiero in generale, e anche
la scienza potrebbe andare a passeggio e collocarsi nell’angolo del
cimitero preferito, perché sarebbe l’unica libertà rimastale, simile al
destino degli elefanti, nello stadio finale della loro agonia.
Ora e poiché i tempi stringono: nulla togliendo ai grandi meriti che
derivano dal sostituire la critica
della conoscenza dell’età moderna con la
critica del senso di
provenienza filosofico-linguistica, è indubbio che anche il tardo
Wittgenstein, al pari di Heidegger e Gadamer e di postmodernisti (anche
se di provenienza diversa) come Rorty e Derrida (l’elenco sarebbe molto
lungo), commettono, a parere di Apel, l’identico errore, ossia elevano
le proprie asserzioni a validità
universale; validità che paradossalmente contestano di principio
(perché un relitto metafisico) ma di cui tacitamente si servono per la
decostruzione/distruzione, in generale, della filosofia. Sono pretese
taciute, ma che scorrono nelle loro argomentazioni: pretese
sistematicamente sottratte all’(auto-)riflessione critica. Se tutto è
relativo, incerto e fallibile e se non ci sono verità, fondamenti e
validità, perché dovrebbero essere vere e valide le pretese linguistiche
o filosofiche di Wittgenstein, di Heidegger, di Rorty, di Foucault, di
Derrida e altri?
Probabilmente le cose stanno in modo diverso da come pensano i detrattori
qui menzionati. Perché? Perché prima ancora di poter formulare un
enunciato filosofico, prima ancora di ogni semplice ipotesi, dobbiamo
prendere in considerazione quel
qualcosa che Apel chiama il
logos a priori del linguaggio. Quel
logos a partire dal quale (e
non viceversa) è possibile parlare di
radure (Heidegger), di essere,
di gioco linguistico e, più in
generale, di scetticismo, di
relativismo; quel
logos che, anche e più semplicemente, ci fa parlare di
conoscenza e
verità. E ciò perché ogni argomentare si trova sempre e comunque
all’interno dell’a priori del
logos del linguaggio. Tant’è che nessuno può argomentare fuori
dall’argomentazione, come nessuno può discutere fuori dal discorso.
Anche il relativista più convinto e lo scettico più radicale sono
obbligati, come abbiamo visto prima, al
discorso, se vogliono seriamente sostenere quanto affermano nelle loro
posizioni scettiche e relativistiche. Il discorso ci precede prima
ancora di ogni nostra singola parola. In che senso parliamo allora di
fondamenti del discorso o di discorso fondato? Semplicemente e per il
fatto che è la struttura
stessa del linguaggio che ce lo impone. Infatti, non c’è discorso
(filosofico) serio – come evidenziano Apel e Habermas – che non rinvii
ad alcune pretese etiche che
costituiscono la consistenza
pragmatica del gioco linguistico, cioè pretese che costituiscono il
rapporto tra linguaggio e il suo uso. Si tratta, come dicevo prima, di
pretese etiche valide universalmente, date con la struttura stessa
del discorso e che non possono essere smentite perché precedono lo
stesso discorso; sono pretese di cui sempre già ci serviamo nel momento
in cui ci rimettiamo all’argomentazione. Quali sono questi fondamenti
etici o pretese etiche che
strutturano e fondano – a dispetto dei loro detrattori – ogni discorso
filosofico serio? Ne menziono quattro, le più importanti[12]:
1. La pretesa di senso: in un
discorso serio, si fanno domande serie (domande che hanno un senso,
domande che mirano ad un senso);
2. La pretesa oggettiva di verità:
le domande che formuliamo in un discorso serio pretendono di dire il
vero e di valere per tutti (questa pretesa è riferita al mondo esterno o
fenomenico);
3. La pretesa soggettiva di
franchezza: chi partecipa al discorso lo fa (lo deve fare) in modo
franco, sincero e nella ricerca comune della verità (questa pretesa è
riferita al mondo interiore):
4. La pretesa intersoggettiva
morale-normativa di giustezza. Questa pretesa è riferita al mondo
sociale e indica un concetto etico importante, e cioè: se
nell’argomentazione una pretesa risulta vera, i
partner della comunicazione
daranno il loro assenso e la condivideranno (solo così si può
corrispondere responsabilmente alla presa d’atto e soluzione razionale
di problemi nazionali, internazionali e planetari della nostra epoca).
Se le qui elencate pretese etiche
vengono soddisfatte, siamo nella
situazione discorsiva ideale,
all’interno di un modello di società giusta che coincide con la
comunità democratica di uomini
uguali e liberi che dialogano sui problemi collettivi e cercano di
risolverli razionalmente e non con costrizioni, imposizioni o guerre.
Queste pretese costituiscono il
fondamento etico a priori del discorso filosofico. Come si vede, si può
parlare e bene di fondamento e
di fondamenti etici. Apel
racchiude tutto ciò nella formula
Etica del discorso. Non si tratta di un discorso
metafisico e di
fondamenti metafisici, come
qualcuno ha supposto e suppone, in quanto l’etica qui a monte (non è
quella di Apel o di altro pensatore); è, piuttosto, un’etica strutturale
al discorso. E in questo senso non è ovviamente né un’etica
formale (sul modello di Kant)
né un’etica materiale (sul
modello teorico di Max Scheler[13]).
È un’etica data con l’a priori
della comunità comunicativa, i
cui membri sono legati dal vincolo dei fondamenti etici che strutturano
il discorso.
Se ci rimettiamo a quest’etica, all’etica strutturale del discorso, come
propone Apel, abbiamo un orizzonte normativo
intersoggettivo valido non solo per cogliere le sfide del mondo
globalizzato, ma anche per trovare, nella ricerca comune, le giuste
risposte; giuste, perché sono risposte nell’interesse generale di tutti
e non per pochi privilegiati o per singoli giochi linguistici come pensa
Wittgenstein[14].
Sono risposte nell’interesse delle future generazioni e anche di quanti
non possono articolare i propri interessi perché troppo giovani, anzi
giovanissimi, come gli alunni (o bambini) delle nostre scuole
dell’infanzia e primarie. Interessi che noi, docenti del Corso di Laurea
in Scienze della formazione
primaria, dobbiamo tutelare, per loro stessi, ma anche per il futuro
della nostra società.
Mi fermo qui per passare ai ringraziamenti dovuti
Vorrei ringraziare a nome di Karl-Otto Apel il Magnifico Rettore
dell’Università della Calabria, Gino Mirocle Crisci, il Direttore del
Dipartimento di Studi Umanistici, Raffaele Perrelli, la Coordinatrice
del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria, Antonella
Valenti, il Coordinatore del Corso di Laurea in Filosofia e Storia, Pio
Colonnello, le colleghe e i colleghi, gli studenti. Consentitemi,
inoltre, di ringraziare e salutare (dalla Calabria, dal Busento, tanto
caro al poeta tedesco August Von Platen, e da questo importante ateneo)
e, a nome di tutti, l’amico Karl-Otto Apel per l’onore che mi ha
riservato nell’affidarmi la lectio
magistralis che lui avrebbe certo voluto scrivere e tenere
personalmente. L’aver voluto affidare alle mie parole il suo pensiero mi
ha, a dir poco, emozionato. Gli sono molto obbligato. Ho potuto farlo
per sommi capi e solo in riferimento ad una piccola parte della sua
teoria del discorso. Ho dovuto tralasciare molto, soprattutto la parte B
dell’etica del discorso, la parte che entra nei problemi concreti
dell’umanità indicando i modi per cercare di risolverli razionalmente.
Per la brevità del tempo, non so se, e fino a che punto, sia riuscito
nell’impresa che mi è stata assegnata: l’impresa di presentare in pochi
minuti un pensiero complesso come quello di Apel. Ho scelto volutamente
un linguaggio il più semplice possibile per avvicinare i nostri studenti
alla grandezza di questo pensiero.
Di Apel ha scritto Habermas: “Ciò
che ci legava a lui è il fascino che ha lasciato in molte generazioni di
studenti, il suo modo non-seduttivo,
non-coattivo, il fatto, cioè, di incorporare nella sua persona la stessa
filosofia”[15].
Vi ringrazio per l’attenzione.
* Professore ordinario di Pedagogia generale presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria.
[1]
Discorso tenuto in occasione del conferimento della Laurea
honoris causa in “Scienze della Formazione Primaria” a Karl-Otto
Apel da parte dell’Università degli Studi della Calabria, il 19
ottobre 2015. Il filosofo tedesco, non potendo partecipare
personalmente alla cerimonia per motivi di salute, ha fatto
pervenire al Direttore del Dipartimento di Studi Umanistici,
professore Raffaele Perrelli, la seguente lettera:
“Magnifico Rettore dell’Università della Calabria, Stimatissimo
Direttore del Dipartimento di Studi Umanistici, Presidente del
Corso di Laurea in Scienze della formazione primaria, Colleghe e
Colleghi, sono estremamente felice che la vostra Università
abbia riservato al mio lavoro filosofico, che mi ha visto
impegnato tutta la vita, questa forma di riconoscimento.
L’aggravarsi della mia condizione di salute non mi permette di
essere presente e partecipare di persona ad un evento per me
così importante e che mi onora molto – e ciò mi dispiace, anche
e soprattutto, per un altro motivo a cui avrei tenuto molto: che
mi venga meno la possibilità di ringraziarvi personalmente.
Ringraziare anche il professore Michele Borrelli che ha dedicato
un lungo periodo di tempo a traduzioni di miei testi dal tedesco
e a saggi e libri suoi che hanno contribuito alla diffusione del
mio pensiero. Dovendo astenermi da ogni viaggiare, ho pregato il
mio collega dell’Università di Freiburg, il professore Reinhard
Hesse, al quale sono legato anche personalmente da molti anni,
di ritirare il riconoscimento di cui mi avete onorato e
ringraziarvi a nome mio. Affido al professore e amico Michele
Borrelli, conoscitore del mio pensiero, la
lectio magistralis.
Sicuro della vostra comprensione e chiedendovi nuovamente scusa,
Vi porgo i miei più sentiti ringraziamenti legandoli ad un
saluto di cuore”. Karl-Otto Apel
[2]Sul
punto si veda M. Weber, La
scienza come professione, a cura di L. Pellicani, Armando,
Roma 1997.
[3]
M. Horkheimer, T. W. Adorno,
Dialettica
dell’illuminismo, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino
2010
[4] J. Habermas,
«Ein Bewusstsein von dem, was fehlt. Über Glauben und Wissen und
den Defaitismus der modernen Vernunft», Neue Züricher
Zeitung, 10.
2. 2007; trad. it. di L. Ceppa: «Contro il disfattismo
della scienza moderna. Per un nuovo patto tra fede e ragione»,
in Teoria politica,
XXIII, n. 1, 2007, pp. 5-10.
[5]
Si veda M. Heidegger, «Oltrepassamento della metafisica», in
Saggi e discorsi,
trad. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1985, pp. 45-65.
[6]
Ci si riferisce alla visione lyotardiana (sulle orme di Theodor
W. Adorno) in Il
postmoderno spiegato ai bambini, trad. it. di A. Serra,
Feltrinelli, Milano 1987.
[7]M.
Horkheimer, Eclisse della
ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. di E.
Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino 2000.
[8]Th.
W. Adorno, Dialettica negativa, a cura di S. Petrucciani,
Einaudi, Torino 2004, p. 328.
[9]
U. Beck, Conditio humana.
Il rischio nell’età globale, trad. it. di C. Sandrelli,
Laterza, Roma-Bari 2008.
[10] “Il filosofo è colui che deve guarire in sé molte
malattie dell’intelletto prima di poter giungere alle nozioni
del sano senso comune» (L. Wittgenstein,
Pensieri diversi,
trad. it. di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1980, p. 86). Cfr.
anche L. Wittgenstein,
Ricerche filosofiche, trad. it. di R. Piovesan, a cura di M.
Trinchero, Einaudi, Torino 1963, §§ 133, pp. 255, 309.
[11]
Cfr. M. Borrelli,
Postmodernità e fine della ragione, con postfazione di Raúl
Fornet-Betancourt, Pellegrini, Cosenza 2011.
[12]
Cfr. K.-O. Apel,
Ermeneutica e filosofia trascendentale in Wittgenstein,
Heidegger, Gadamer, Apel, a cura, trad. it. e presentazione
di M. Borrelli, Pellegrini, Cosenza 2006, p. 265.
[13]
M. Scheler, Il formalismo
nell'etica e l’etica materiale dei valori, a cura di R.
Guccinelli, Bompiani, Milano 2013.
[14]L. Wittgenstein,
Ricerche filosofiche,
op. cit..
[15]J. Habermas, “Ein Baumeister mit hermeneutischem
Gespuer – Der Weg des Philosophen Karl-Otto Apel”, in W.
Reese-Schaefer, Karl-Otto
Apel zur Einfuerung, Junius, Hamburg 1990, p.139. |
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