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 16/05/2017

Si è spento il filosofo Karl-Otto Apel

Ieri, 15 maggio, nella sua casa di Niedernhausen in Germania, si è spento all'età di 95 anni Karl-Otto Apel, uno dei filosofi che ha segnato in maniera indelebile il pensiero contemporaneo. Era appena uscito il suo ultimo libro Transzendentale Reflexion und Geschichte, pubblicato agli inizi di marzo dalla casa editrice Suhrkamp. A lui va il merito di aver fondato un nuovo indirizzo di pensiero, la pragmatica trascendentale, portando all’ultima conseguenza la fondazione dell’etica del discorso. Contro lo spirito di detrascendentalizzazione della filosofia, Apel ha ripreso e sviluppato la riflessione trascendentale di Kant sulle condizioni di possibilità di validità delle pretese di verità, confrontandosi, per un verso, con la filosofia di provenienza metafisico-ontologica, per altro verso con la filosofia metafisico-coscienzialistica o del soggetto, nonché con le scoperte ermeneutiche e fenomenologiche che si dimostrano indispensabili anche in chiave trascendentalsemiotica così come teorizzata da Apel nell’ambito delle condizioni delle scienze sociali e spirituali in generale. Il progetto apeliano di trasformazione-ricostruzione in chiave trascendentalermeneutica della filosofia kantiana e moderna in generale, nonché di fondazione ultima della filosofia teoretica e pratica, è un tentativo di elaborazione di un nuovo paradigma, di un terzo paradigma della philosophia prima successivamente ai paradigmi di Aristotele e di Descartes, sulla base di un’impostazione strettamente pragmatico-trascendental-linguistica o appunto semiotica.

Nato a Düsseldorf (Germania) il 15 marzo 1922, consegue il Dottorato nell’Università di Bonn nel 1950. Nel 1961 ottiene l’abilitazione alla libera docenza nell’Università di Mainz. Come ordinario di Filosofia esercita la docenza dal 1962 al 1969 nell’Università di Kiel; dal 1969 al 1972 nell’Università di Saarbrücken, finché si trasferisce a Francoforte nell’Università “Johann Wolfgang Goethe” in cui è professore emerito dal 1990. Più volte visiting professor in molte università americane e europee, nella sua lunga e prestigiosa carriera è stato insignito di innumerevoli premi e riconoscimenti e ha ricevuto più volte lauree honoris causa.

 

Tra le sue opere, tradotte in italiano: Comunità e comunicazione (1977); L’idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico (1975); Etica della comunicazione (1992); Discorso, verità, responsabilità. Le ragioni della fondazione: con Habermas contro Habermas (1997); Lezioni di Aachen e altri scritti (2004); Cambiamento di paradigma. La ricostruzione trascendentalermeneutica della filosofia moderna (2005); Ermeneutica e filosofia trascendentale in Wittgenstein, Heidegger, Gadamer, Apel (2006).

 

Il 19 ottobre 2015 l'Università della Calabria gli ha conferito la laurea honoris causa in Scienze della Formazione Primaria. Per delineare l'attualità del pensiero del grande filosofo, riportiamo il testo del discorso tenuto da Michele Borrelli (suo amico e collaboratore, presidente del Centro filosofico internazionale Karl-Otto Apel) in occasione del conferimento della Laurea honoris causa in “Scienze della Formazione Primaria” da parte dell’Università degli Studi della Calabria.

 

 

 

Michele Borrelli*

L’etica del discorso

Lectio magistralis per il conferimento della Laurea Magistrale ad honorem

in “Scienze della formazione primaria” a Karl-Otto Apel[1]

 

Riassunto

Il testo discute l’attualità del pensiero filosofico di Karl-Otto Apel in un confronto serrato con le posizioni di Derrida, Foucault, Lyotard, Rorty, Wittgenstein e Gadamer. Contro tutti i disfattismi della ragione, l’etica del discorso (prima nella versione Habermas/Apel, successivamente nel senso di fondazione ultima in cui la intende Apel) dimostra come si può giungere (per via discorsiva e non per deduzione metafisica) alla fondazione di principi etici (e anche della filosofia e della scienza in generale). La discorsività è strutturalmente legata all’etica (del discorso) e non ha bisogno di fondamenti metafisici. Il logos (a priori) del linguaggio precede anche le singole posizioni filosofiche e costituisce, pertanto, una istanza di fondazione discorsiva inaggirabile anche per chi rifiuti il discorso.

Parole chiave: Etica, discorsività, fondazione, linguaggio, a priori.

 

Abstract

The ethics of discourse

Lectio magistralis delivered on the occasion of the conferral of the Honorary Degree in Primary Teacher Education to Karl-Otto Apel, by University of Calabria (UNICAL) - October 19, 2015

This essay discusses the actuality of philosophical thought of Karl-Otto Apel in a close comparison with the positions of Derrida, Foucault, Lyotard, Rorty, Wittgenstein and Gadamer. Against all the defeatism of reason, the discourse ethics (first in the version Habermas/Apel, subsequently in the sense formulated from Apel of ultimate grounding) demonstrates how you can reach (via discursive and not for metaphysical deduction) to the foundation of ethical principles (and also of philosophy and science in general). The discursivity is structurally related to the ethics (of discourse) and has no need of the metaphysical foundations. The logos (a priori) of language also precedes the individual philosophical positions and and therefore constitutes an instance of discursive foundation inescapable for those who refuse the discourse.

Keywords: Ethics, discursivity, foundation, language, a priori.

 

Qualunque sia il significato che si voglia assegnare alle dispute attuali, l’approccio filosofico di Karl-Otto Apel rappresenta un punto di approdo del discorso filosofico contemporaneo. Ovviamente, l’ipotesi vale se concordiamo su alcuni presupposti che riguardano il senso del discorso filosofico in un’epoca di dominio della razionalità scientifico-tecnologica come la nostra. Immagino che tutti condividano il bisogno di un discorso filosofico che non giri a vuoto su se stesso come una mosca imprigionata sotto un bicchiere, ma sappia rispondere alle sfide dei nostri tempi. Il discorso filosofico è, per questo, imprescindibile dall’etica. Etica non sta qui per discorsi tradizionali che conosciamo attraverso lunghe dispute filosofiche, ma per principio di responsabilità morale che vede tutti noi obbligati a misurarci con problemi di portata planetaria, in parte dovuti ad un uso sregolato dei potenziali tecnici. Per Apel, in quest’epoca della tecnica globalizzata diventa sempre più pressante e necessaria l’elaborazione di un’etica universalmente valida che sappia anche rispondere alla richiesta globale di giustizia sociale. È una richiesta etica che, però, deve fare i conti con l’idea di razionalità che l’Occidente ha portato e porta tuttora avanti.

Sappiamo che il concetto di razionalità si è sviluppato sotto il segno della scienza e ciò, dopo Max Weber[2], ha avuto la conseguenza disastrosa di far credere che la nostra razionalità fosse assolutamente neutrale e che non avesse, quindi, niente in comune con l’etica e la sua universalizzazione. Conclusione, per Apel, errata che è documentabile fin nella Dialettica dell’illuminismo[3] di Max Horkheimer e Theodor Adorno.

Dopo la barbarie di Auschwitz, non più certi delle possibilità conoscitive della dialettica, Horkheimer e Adorno abbandonano l’idea che la ragione umana possa concretizzarsi in un progetto etico generalizzabile. Finita sotto accusa, la ragione è diventata sempre più oggetto di contestazione, per sconfinare non solo in una profonda crisi, ma in un generale disfattismo (per usare un termine molto preciso di Habermas[4]). La ragione avrebbe sbagliato tutto. Sbagliata sarebbe tutta la nostra cultura. Sbagliata sarebbe sicuramente tutta la modernità, che dovremmo oltrepassare. Come dice Heidegger, dovremmo superare tutta questa tradizione e la metafisica[5] che è stata elevata su questa ragione e sul suo ideale di progresso. Dovremmo liquidare una ragione che, nell’analisi di qualche famoso postmodernista[6], ci ha condotto – con la sua violenza intrinseca – ad Auschwitz. Dovremmo lasciare dietro di noi una ragione della violenza per qualcosa che, però, non si capisce bene che cosa sia, per qualcosa di ‘post’ di cui non si riesce a cogliere bene il significato. Almeno Apel non riesce a capire il senso di questa richiesta. Quando, proprio a partire da Auschwitz, dobbiamo chiederci non solo come sia stata possibile l’eclissi della ragione, sulla quale hanno scritto pagine importanti Horkheimer e Adorno[7], ma chiederci anche (e con lo stesso Adorno): che cosa possiamo fare affinché una barbarie del genere non si ripeta mai più[8]? Ma questa, per Apel, è nuovamente una richiesta etica. L’esperienza storica di Auschwitz e i rischi di un mondo sempre più in balia dei suoi potenziali tecnici (rischi di cui ha scritto bene il sociologo tedesco Ulrich Beck[9]) ci dicono che l’esigenza di etica, l’esigenza, diciamo, di un’etica minima universalmente condivisibile, rappresenta non uno tra i tanti pensabili imperativi ma l’imperativo prioritario della nostra epoca.

Ciò anticipato, passo velocemente alla trasformazione trascendental-semiotica della filosofia che Apel – tenuto conto di quanto appena detto – ha sviluppato in una configurazione appunto etica, cioè nella forma dell’etica del discorso. Un approccio che parte dal primo paradigma della filosofia prima (il paradigma dell’essere) al quale è seguito il paradigma del soggetto (della modernità) e, infine, il paradigma della comunità comunicativa, prima nella versione in comune con Habermas e poi nella concezione ultima di etica del discorso, nella peculiare formulazione di Karl-Otto Apel, distinta dal modello precedentemente elaborato insieme a Jürgen Habermas. Di qui i termini apeliani conosciuti in Europa e nel mondo: etica del discorso, etica intersoggettiva o etica della discorsività. A scanso di equivoci, sia detto che nel paradigma di Apel non si pensa, sulle orme di Max Scheler e Nicolai Hartmann, ad un’etica di valori con validità universale, piuttosto ad alcuni principi formali consensualmente condivisibili e generalizzabili. Sono principi pensati oltre il soggettivismo trascendentale di Kant e anche oltre il soggettivismo trascendental-fenomenologico di Husserl.

Contro tutti i disfattismi postmoderni e non solo, Apel rimane fermo nella convinzione che, nell’epoca del dominio globalizzato della tecno-scienza, la filosofia possa ed anzi debba porsi il compito di fondare un’etica su principi capaci di raccogliere il consenso di tutti. Una tesi che vede Apel agli antipodi del pensiero di Foucault che ritiene una catastrofe far valere, in ambito morale, principi universali. Siamo anche agli antipodi rispetto al pacato Derrida che definisce un “terrorismo del consenso” la richiesta apeliana di universalizzazione.

Notate in presenza di quale scenario ‘filosofico’ ci troviamo.

Perché affaticarci nella ricerca di principi etici validi per tutti, se l’ultimo Horkheimer e l’ultimo Adorno diffidano della ragione e Foucault vede nell’universalizzazione della morale una catastrofe e Derrida una possibile ricaduta nella dittatura? Sotto il peso distruttivo di questa critica sferrata da più fronti, chi, come Apel, pensa ad un’etica valida per tutti, dovrebbe documentare solo l’alto grado della sua malattia mentale e il bisogno urgente di essere ricoverato in una clinica psichiatrica. E immagino che Wittgenstein abbia, in generale, pensato proprio a questa malattia mentale, vizio congenito della filosofia e del filosofo, quando ha consigliato a quest’ultimo di usare la filosofia come auto-terapia[10]. Ma forse le cose non stanno così come pensano Wittgenstein, Derrida, Foucault e altri.

Perché, completamente contro-tendenza e nonostante i proclami della fine delle narrazioni (Lyotard)[11], piccole e grandi, e dei cimiteri della conoscenza aperti ovunque dalla crisi della ragione, Apel con la sua etica del discorso, dimostra il contrario; dimostra come si possono fondare razionalmente (o, meglio, discorsivamente) norme e principi, in senso, appunto, universale, senza cadere in nuove forme metafisiche di cui la nostra tradizione è ricca. Senza giri di parole: per Apel l’argomentazione è una base solida per fondare un’etica che sia valida per tutti, ma anche per dare fondamento ad ogni altra conoscenza e verità, se di verità vogliamo ancora parlare – tema, questo, che tra i postmoderni non solo non è scontato, ma da alcuni è ritenuto superfluo se non dannoso. L’etica del discorso, come dice il termine stesso, si basa sul discorso. Ma sul discorso non si basa solo l’etica del discorso. Sul discorso si basa anche ogni altra conoscenza e verità. Ciò perché è nel discorso, pensato oggi come comunità semiotica e comunicativa, che si avvera ogni fondato argomentare e si distingue tra ciò che è valido e ciò che non è valido. Ed è sempre nel discorso che avviene il comprendersi su qualcosa. Anche l’argomentare di chi si oppone al discorso, anche l’argomentare contro lo stesso discorso, l’argomentare del più radicale scettico (di colui che non crede in nulla, di quello scettico talmente scettico che nemmeno se la sente – socraticamente – di affermare so di non sapere), ebbene anche quest’ultimo non sfugge alla struttura argomentativa del discorso. Nel momento in cui lo scettico argomenta (scetticamente) sulla sua scelta (scettica) è già – come afferma Apel – all’interno del discorso. Lo scettico deve pur spiegare perché è scettico. E per spiegare il suo scetticismo e la validità del suo scetticismo, dovrà servirsi di argomenti validi da introdurre nel discorso. Se, a priori, negassimo al discorso filosofico di poter giungere ad un consenso fondato e universalmente valido (nel nostro caso su norme e principi etici) – che si tratti poi del discorso scientifico o del discorso filosofico – per quel che riguarda gli effetti, nulla cambierebbe: le conseguenze sarebbero davvero catastrofiche e davvero potremmo aprire le porte a forme nuove di dittature. Un disfattismo del genere sarebbe catastrofico per ogni nostro intenderci su qualcosa. Se negassimo a priori la validità della ragione discorsiva, verrebbe meno la possibilità di ogni argomentare (anche di ogni argomentare ermeneutico a cui le scienze sociali, culturali e storiche si affidano). In questa insensatezza generale, crollerebbero le condizioni di ogni nostra comprensione e la stessa comunicazione (su che cosa dovremmo comunicare e comprenderci, se tutto è incerto e niente può essere fondato, se vale tutto e il contrario di tutto?); saremmo fuori da ogni argomentata e razionale giustificazione, fuori dal senso e dalla critica del senso, di cui, proprio a partire dalla svolta linguistica in filosofia, tanto si è detto. Ma, come se ciò non bastasse, nella corsa a chi sfascia di più, Derrida si sbarazza anche della nozione di critica, ritenendola priva di senso.

Giro allora, con Apel, la domanda in modo diverso: è possibile parlare di etica (del discorso), di fondazione dell’etica, di fondazione di norme, di fondazione della scienza, di fondazione della filosofia o questi interrogativi sono fantasmi dai quali dobbiamo liberarci, per dedicarci, come sottolinea l’ultimo Wittgenstein, alla descrizione di un linguaggio da intendere come pratica di vita quotidiana? Per Wittgenstein, udite udite, l’unico compito della filosofia è descrivere queste pratiche di vita. C’è di più: per Wittgenstein la verità del linguaggio dipende dall’uso specifico che se ne fa nella pratica della vita quotidiana. Partendo da questo assunto, Wittgenstein può, a ragione, dedurre: poiché i linguaggi sono vari e sempre diversi, cade la speranza del filosofo di pensare ad un linguaggio unitario; cade la pretesa di sperare in un consenso valido, universalizzabile e da tutti condivisibile. Una filosofia che rincorre un consenso del genere, diventa un non-senso, un nulla di fatto: una malattia da curare.

Effettivamente, se valgono i presupposti di Wittgenstein e Heidegger – fatemelo dire con un po’ di durezza andando un po’ fuori dal linguaggio pacato di Apel: se valgono le metafisiche taciute, ma non per questo meno insistenti di Wittgenstein e Heidegger (metafisiche che entrambi aborriscono, ma nelle quali entrambi cascano continuamente), se siamo veramente in balia di una fattività storica così deterministica e determinante dell’accadere dell’essere, di cui parla Heidegger, o nella morsa dei giochi linguistici, infiniti e sempre diversi, di cui parla Wittgenstein, viene sul serio meno ogni domanda di fondazione etica, ma viene meno anche ogni domanda di fondazione filosofica, scientifica, ecc.; viene meno anche ogni possibilità di comprendersi universalmente su qualcosa, perché, a questo punto, tutto è sottomesso ai giochi linguistici, ognuno dei quali è chiuso e isolato nella sua pratica di vita quotidiana. Vorrei ricordare che anche i nazisti avevano il loro gioco linguistico, il gioco linguistico della pratica di vita dei forni crematori. Se partissimo dai giochi linguistici e ci fermassimo ad essi, potremmo legittimare tutto e il contrario di tutto: potremmo giustificare anche la meno inimmaginabile barbarie. Se fossimo nelle grinfie di nuovi fantasmi, in questo caso nelle grinfie dei fantasmi dei giochi linguistici di Wittgenstein o, a nostra insaputa, dei fantasmi della storia dell’essere di Heidegger, potremmo congedarci sul serio dalla filosofia, anzi, non solo dalla filosofia ma anche dal pensiero in generale, e anche la scienza potrebbe andare a passeggio e collocarsi nell’angolo del cimitero preferito, perché sarebbe l’unica libertà rimastale, simile al destino degli elefanti, nello stadio finale della loro agonia.

Ora e poiché i tempi stringono: nulla togliendo ai grandi meriti che derivano dal sostituire la critica della conoscenza dell’età moderna con la critica del senso di provenienza filosofico-linguistica, è indubbio che anche il tardo Wittgenstein, al pari di Heidegger e Gadamer e di postmodernisti (anche se di provenienza diversa) come Rorty e Derrida (l’elenco sarebbe molto lungo), commettono, a parere di Apel, l’identico errore, ossia elevano le proprie asserzioni a validità universale; validità che paradossalmente contestano di principio (perché un relitto metafisico) ma di cui tacitamente si servono per la decostruzione/distruzione, in generale, della filosofia. Sono pretese taciute, ma che scorrono nelle loro argomentazioni: pretese sistematicamente sottratte all’(auto-)riflessione critica. Se tutto è relativo, incerto e fallibile e se non ci sono verità, fondamenti e validità, perché dovrebbero essere vere e valide le pretese linguistiche o filosofiche di Wittgenstein, di Heidegger, di Rorty, di Foucault, di Derrida e altri?

Probabilmente le cose stanno in modo diverso da come pensano i detrattori qui menzionati. Perché? Perché prima ancora di poter formulare un enunciato filosofico, prima ancora di ogni semplice ipotesi, dobbiamo prendere in considerazione quel qualcosa che Apel chiama il logos a priori del linguaggio. Quel logos a partire dal quale (e non viceversa) è possibile parlare di radure (Heidegger), di essere, di gioco linguistico e, più in generale, di scetticismo, di relativismo; quel logos che, anche e più semplicemente, ci fa parlare di conoscenza e verità. E ciò perché ogni argomentare si trova sempre e comunque all’interno dell’a priori del logos del linguaggio. Tant’è che nessuno può argomentare fuori dall’argomentazione, come nessuno può discutere fuori dal discorso. Anche il relativista più convinto e lo scettico più radicale sono obbligati, come abbiamo visto prima, al discorso, se vogliono seriamente sostenere quanto affermano nelle loro posizioni scettiche e relativistiche. Il discorso ci precede prima ancora di ogni nostra singola parola. In che senso parliamo allora di fondamenti del discorso o di discorso fondato? Semplicemente e per il fatto che è la struttura stessa del linguaggio che ce lo impone. Infatti, non c’è discorso (filosofico) serio – come evidenziano Apel e Habermas – che non rinvii ad alcune pretese etiche che costituiscono la consistenza pragmatica del gioco linguistico, cioè pretese che costituiscono il rapporto tra linguaggio e il suo uso. Si tratta, come dicevo prima, di pretese etiche valide universalmente, date con la struttura stessa del discorso e che non possono essere smentite perché precedono lo stesso discorso; sono pretese di cui sempre già ci serviamo nel momento in cui ci rimettiamo all’argomentazione. Quali sono questi fondamenti etici o pretese etiche che strutturano e fondano – a dispetto dei loro detrattori – ogni discorso filosofico serio? Ne menziono quattro, le più importanti[12]:

1. La pretesa di senso: in un discorso serio, si fanno domande serie (domande che hanno un senso, domande che mirano ad un senso);

2. La pretesa oggettiva di verità: le domande che formuliamo in un discorso serio pretendono di dire il vero e di valere per tutti (questa pretesa è riferita al mondo esterno o fenomenico);

3. La pretesa soggettiva di franchezza: chi partecipa al discorso lo fa (lo deve fare) in modo franco, sincero e nella ricerca comune della verità (questa pretesa è riferita al mondo interiore):

4. La pretesa intersoggettiva morale-normativa di giustezza. Questa pretesa è riferita al mondo sociale e indica un concetto etico importante, e cioè: se nell’argomentazione una pretesa risulta vera, i partner della comunicazione daranno il loro assenso e la condivideranno (solo così si può corrispondere responsabilmente alla presa d’atto e soluzione razionale di problemi nazionali, internazionali e planetari della nostra epoca).

Se le qui elencate pretese etiche vengono soddisfatte, siamo nella situazione discorsiva ideale, all’interno di un modello di società giusta che coincide con la comunità democratica di uomini uguali e liberi che dialogano sui problemi collettivi e cercano di risolverli razionalmente e non con costrizioni, imposizioni o guerre.

Queste pretese costituiscono il fondamento etico a priori del discorso filosofico. Come si vede, si può parlare e bene di fondamento e di fondamenti etici. Apel racchiude tutto ciò nella formula Etica del discorso. Non si tratta di un discorso metafisico e di fondamenti metafisici, come qualcuno ha supposto e suppone, in quanto l’etica qui a monte (non è quella di Apel o di altro pensatore); è, piuttosto, un’etica strutturale al discorso. E in questo senso non è ovviamente né un’etica formale (sul modello di Kant) né un’etica materiale (sul modello teorico di Max Scheler[13]). È un’etica data con l’a priori della comunità comunicativa, i cui membri sono legati dal vincolo dei fondamenti etici che strutturano il discorso.

Se ci rimettiamo a quest’etica, all’etica strutturale del discorso, come propone Apel, abbiamo un orizzonte normativo intersoggettivo valido non solo per cogliere le sfide del mondo globalizzato, ma anche per trovare, nella ricerca comune, le giuste risposte; giuste, perché sono risposte nell’interesse generale di tutti e non per pochi privilegiati o per singoli giochi linguistici come pensa Wittgenstein[14]. Sono risposte nell’interesse delle future generazioni e anche di quanti non possono articolare i propri interessi perché troppo giovani, anzi giovanissimi, come gli alunni (o bambini) delle nostre scuole dell’infanzia e primarie. Interessi che noi, docenti del Corso di Laurea in Scienze della formazione primaria, dobbiamo tutelare, per loro stessi, ma anche per il futuro della nostra società.

 

Mi fermo qui per passare ai ringraziamenti dovuti

Vorrei ringraziare a nome di Karl-Otto Apel il Magnifico Rettore dell’Università della Calabria, Gino Mirocle Crisci, il Direttore del Dipartimento di Studi Umanistici, Raffaele Perrelli, la Coordinatrice del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria, Antonella Valenti, il Coordinatore del Corso di Laurea in Filosofia e Storia, Pio Colonnello, le colleghe e i colleghi, gli studenti. Consentitemi, inoltre, di ringraziare e salutare (dalla Calabria, dal Busento, tanto caro al poeta tedesco August Von Platen, e da questo importante ateneo) e, a nome di tutti, l’amico Karl-Otto Apel per l’onore che mi ha riservato nell’affidarmi la lectio magistralis che lui avrebbe certo voluto scrivere e tenere personalmente. L’aver voluto affidare alle mie parole il suo pensiero mi ha, a dir poco, emozionato. Gli sono molto obbligato. Ho potuto farlo per sommi capi e solo in riferimento ad una piccola parte della sua teoria del discorso. Ho dovuto tralasciare molto, soprattutto la parte B dell’etica del discorso, la parte che entra nei problemi concreti dell’umanità indicando i modi per cercare di risolverli razionalmente. Per la brevità del tempo, non so se, e fino a che punto, sia riuscito nell’impresa che mi è stata assegnata: l’impresa di presentare in pochi minuti un pensiero complesso come quello di Apel. Ho scelto volutamente un linguaggio il più semplice possibile per avvicinare i nostri studenti alla grandezza di questo pensiero.

Di Apel ha scritto Habermas: “Ciò che ci legava a lui è il fascino che ha lasciato in molte generazioni di studenti, il suo modo non-seduttivo, non-coattivo, il fatto, cioè, di incorporare nella sua persona la stessa filosofia[15].

Vi ringrazio per l’attenzione.

 

 



* Professore ordinario di Pedagogia generale presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria.

[1] Discorso tenuto in occasione del conferimento della Laurea honoris causa in “Scienze della Formazione Primaria” a Karl-Otto Apel da parte dell’Università degli Studi della Calabria, il 19 ottobre 2015. Il filosofo tedesco, non potendo partecipare personalmente alla cerimonia per motivi di salute, ha fatto pervenire al Direttore del Dipartimento di Studi Umanistici, professore Raffaele Perrelli, la seguente lettera:

“Magnifico Rettore dell’Università della Calabria, Stimatissimo Direttore del Dipartimento di Studi Umanistici, Presidente del Corso di Laurea in Scienze della formazione primaria, Colleghe e Colleghi, sono estremamente felice che la vostra Università abbia riservato al mio lavoro filosofico, che mi ha visto impegnato tutta la vita, questa forma di riconoscimento. L’aggravarsi della mia condizione di salute non mi permette di essere presente e partecipare di persona ad un evento per me così importante e che mi onora molto – e ciò mi dispiace, anche e soprattutto, per un altro motivo a cui avrei tenuto molto: che mi venga meno la possibilità di ringraziarvi personalmente. Ringraziare anche il professore Michele Borrelli che ha dedicato un lungo periodo di tempo a traduzioni di miei testi dal tedesco e a saggi e libri suoi che hanno contribuito alla diffusione del mio pensiero. Dovendo astenermi da ogni viaggiare, ho pregato il mio collega dell’Università di Freiburg, il professore Reinhard Hesse, al quale sono legato anche personalmente da molti anni, di ritirare il riconoscimento di cui mi avete onorato e ringraziarvi a nome mio. Affido al professore e amico Michele Borrelli, conoscitore del mio pensiero, la lectio magistralis. Sicuro della vostra comprensione e chiedendovi nuovamente scusa, Vi porgo i miei più sentiti ringraziamenti legandoli ad un saluto di cuore”. Karl-Otto Apel

 

[2]Sul punto si veda M. Weber, La scienza come professione, a cura di L. Pellicani, Armando, Roma 1997.

[3] M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2010

[4] J. Habermas, «Ein Bewusstsein von dem, was fehlt. Über Glauben und Wissen und den Defaitismus der modernen Vernunft», Neue Züricher Zeitung, 10. 2. 2007; trad. it. di L. Ceppa: «Contro il disfattismo della scienza moderna. Per un nuovo patto tra fede e ragione», in Teoria politica, XXIII, n. 1, 2007, pp. 5-10.

[5] Si veda M. Heidegger, «Oltrepassamento della metafisica», in Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1985, pp. 45-65.

[6] Ci si riferisce alla visione lyotardiana (sulle orme di Theodor W. Adorno) in Il postmoderno spiegato ai bambini, trad. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1987.

[7]M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino 2000.

[8]Th. W. Adorno, Dialettica negativa, a cura di S. Petrucciani, Einaudi, Torino 2004, p. 328.

[9] U. Beck, Conditio humana. Il rischio nell’età globale, trad. it. di C. Sandrelli, Laterza, Roma-Bari 2008.

[10] “Il filosofo è colui che deve guarire in sé molte malattie dell’intelletto prima di poter giungere alle nozioni del sano senso comune» (L. Wittgenstein, Pensieri diversi, trad. it. di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1980, p. 86). Cfr. anche L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad. it. di R. Piovesan, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1963, §§ 133, pp. 255, 309.

[11] Cfr. M. Borrelli, Postmodernità e fine della ragione, con postfazione di Raúl Fornet-Betancourt, Pellegrini, Cosenza 2011.

[12] Cfr. K.-O. Apel, Ermeneutica e filosofia trascendentale in Wittgenstein, Heidegger, Gadamer, Apel, a cura, trad. it. e presentazione di M. Borrelli, Pellegrini, Cosenza 2006, p. 265.

[13] M. Scheler, Il formalismo nell'etica e l’etica materiale dei valori, a cura di R. Guccinelli, Bompiani, Milano 2013.

[14]L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, op. cit..

[15]J. Habermas, “Ein Baumeister mit hermeneutischem Gespuer – Der Weg des Philosophen Karl-Otto Apel”, in W. Reese-Schaefer, Karl-Otto Apel zur Einfuerung, Junius, Hamburg 1990, p.139.