Cosa
Nostra − famosa da quando Mario Puzo, newyorkese di
origini siciliane, scrisse “Il padrino” nel 1969 − non è
ormai l’organizzazione criminale numero uno in Italia.
Nel
dicembre 2006 esce, per Pellegrini Editore nella collana
Mafie, il libro “Fratelli di sangue”, scritto da
Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, che in poco tempo
diventa un grande successo editoriale, attualmente alla
sesta edizione.
Il libro
si propone come un’autorevole sintesi delle conoscenze
attuali nel merito del fenomeno criminale calabrese. La
verità stampata nera su carta è agghiacciante: la
‘ndrangheta calabrese si è trasformata nell’associazione
criminale più potente e feroce del Paese, con
ramificazioni internazionali che includono forti
rapporti coi cartelli di droga colombiani
.
Questo
lavoro rappresenta il frutto dell’interazione fra due
specialisti che possiedono rigorose conoscenze
nell’ambito del settore di studio del crimine
organizzato: l’uno con una esperienza maturata
nell’ambito del contrasto al crimine organizzato,
l’altro con una formazione specialistica in antropologia
e sociologia criminale.
Nicola
Gratteri è un magistrato in prima linea nella lotta
contro la mafia. Sostituto Procuratore della Repubblica
di Reggio Calabria, è uomo di punta della direzione
antimafia di questa bella ma pericolosissima città,
costretto a vivere, a causa del lavoro che svolge,
blindato e sotto scorta. La ‘ndrangheta, anche di
recente, aveva progettato contro di lui un attentato. Stimato e
apprezzato in tutto il mondo, scrive con la lucidità ed
il trasporto di chi dirige pesantissime indagini contro
la ‘ndrangheta in diversi paesi europei e d’oltreoceano,
operazioni investigative riportate dai giornali di tutto
il mondo.
Antonio Nicaso, canadese di origine calabrese,
giornalista, scrittore, professore universitario, è fra
i maggiori esperti mondiali nel settore di studio del
crimine organizzato. Ha pubblicato decine di libri su
aspetti di questo problema in Italia e nel mondo, tra
cui Rocco Perri: The Story of Canada's Most Notorius
Bootlegger; Io e la mafia: le verità di Giulio
Andreotti; e, insieme al giornalista e scrittore Lee
Lamothe, diversi lavori, tra cui Bloodlines: The
Rise and Fall of the Mafia's Royal Family (in
Francia: Les liens du sang) e Global Mafia:
the new world order of organized crime, tradotto in
francese, indonesiano e olandese.
L’opera di Gratteri e Nicaso, oltre a configurarsi come
occasione per attingere a documenti investigativi, atti
giudiziari e relazioni parlamentari, che fanno luce sui
percorsi criminali della ‘ndrangheta calabrese dalle sue
origini ad oggi, risultando molto utile anche per gli
specialisti, ha il merito di riportare l’attenzione alla
lotta contro la mafia.
La lotta
contro la mafia è un terreno essenziale per l'educazione
alla legalità. Per diffondere, soprattutto tra i più
giovani, una cultura della legalità e far maturare
coscienza civica critica e partecipata, la linea scelta
dagli autori è quella di immergere il lettore nella
verità documentata dei fatti.
Lo stile, di vero e genuino taglio giornalistico e
documentario, basato, tra l'altro, su inchieste
poliziesche, non si colloca tra il fittizio e il
fattuale come nel “Padrino” di Puzo, ma si riporta
strettamente alla realtà fattuale con riferimento alle
fonti incontrovertibili di quanto viene esposto.
Il libro riporta testimonianze e fatti che colpiscono
allo stomaco il lettore, soprattutto il lettore
calabrese.
La terribile verità, radiografata da cima a piedi dagli
autorevoli autori (confermata da diverse relazioni del
Ministero dell’Interno italiano, della Commissione
parlamentare antimafia fino al Parlamento europeo e
dalla stampa specializzata di tutto il mondo), è che la
‘ndrangheta calabrese ha preso piede in modo colossale
(e, per ciò stesso, è lecito che scateni un'estrema
preoccupazione), trasformandosi nel giro di un decennio
in una holding del crimine che gestisce tonnellate di
cocaina in tutto il mondo.
La Commissione d’inchiesta sulla droga e sul crimine
organizzato del Parlamento europeo l’ha definita
«l’organizzazione più segreta e sanguinaria», mettendo
in evidenza il processo di estensione dei suoi traffici
in tutta Europa e nel resto del mondo. Ci troviamo
improvvisamente − ma neppure troppo improvvisamente − di
fronte ad un problema di dimensioni mondiali, anche se
il centro di gestione e comando è in una delle regioni
italiane socialmente ed economicamente più deboli.
Gratteri e Nicaso descrivono nei dettagli l’escalation
di questa fortissima organizzazione criminale ed il suo
ruolo di supremazia rispetto a Cosa Nostra, denunciando
la sottovalutazione di un problema divenuto una
drammatica emergenza del nostro Paese.
La
Calabria sta sfuggendo al controllo della legalità, nel
senso che il fenomeno ‘ndrangheta ha creato ormai in
essa la sua “legalità”, il suo Stato.
“In
Calabria, − come spiegano gli autori − questa potente
organizzazione è riuscita a sviluppare una strategia
aggressiva e invasiva, frutto di una egemonia sul
territorio che le permette di infiltrarsi in modo
profondo ed efficace nell’economia e nelle istituzioni”.
Il primo e
principale problema è comprendere come e perché si è
arrivati a questa situazione. Scrivono in proposito:
“Questo libro nasce dal desiderio di capire, per far
capire”.
Un
libro-documento, dunque, per conoscere e per capire, per
permettere a tutti di cogliere in pieno l'essenza del
fenomeno criminale calabrese, in tutta la sua terribile
verità. Una terribile mistura di violenza, sopraffazione
e illegalità troppo sottovalutata per anni.
Per
“capire” e “far capire”, Gratteri e Nicaso vanno diritti
al cuore del problema descrivendo la storia, l’ossatura,
i metodi, le famiglie, le alleanze, le connivenze, i
traffici della ‘ndrangheta calabrese.
Come una
sorta di serpente viscido e strisciante, di cui neanche
ci si accorge, ora in modo scoperto o spettacolare,
pervasiva come una malattia infettiva, va doverosamente
detto che la ‘ndrangheta si è insinuata in tutti i
settori della vita calabrese: massoneria, politica,
società, università (e si potrebbe aggiungere nelle
menti dei calabresi).
Affermano
gli autori: “…rafforzandosi nel silenzio, insinuandosi
nelle logge massoniche, nel sistema economico e
corrompendo la politica, come neanche la mafia siciliana
era riuscita a fare, la mafia delle ‘ndrine ha ormai
soppiantato Cosa Nostra”.
Al riguardo gli autori riportano un pesante passaggio
della relazione parlamentare antimafia risalente al
2003, in cui i commissari affermano: “Storicamente la
mafia calabrese è stata sottovalutata e sottostimata, e
per lungo tempo non è stata adeguatamente studiata ed
analizzata.
Senza
stare a discutere su di chi sia la colpa, può aiutare a
risolvere il problema senz'altro farlo emergere.
Reggio
Calabria, uno dei posti più belli d’Europa, è purtroppo
tristemente famosa per essere l’epicentro di questo
cancro. Una città reale, “regno” della ‘ndrangheta, con
una lunga lista di nomi e luoghi veri che sono oggetto
di investigazioni. “La forza della ‘ndrangheta nella
provincia di Reggio Calabria – scrivono gli autori − è
confermata dai numeri: decine di “locali” con un
esercito di 7.358 presunti affiliati, tra cui 255 donne,
pari al 3% del totale”.
La presenza di donne non costituisce un fenomeno di per
sé nuovo. Già in Cosa Nostra la loro cooperazione era
fondamentale per la sopravvivenza dell’organizzazione.
C'è però una situazione di imparità perché in verità il
loro ruolo è quasi sempre marginale. La conferma di una
simile tesi sembra giungere, come dimostra il libro, dal
codice sequestrato dalla Squadra Mobile di Reggio
Calabria e dalla Criminalpol calabrese nel giugno del
1987 nel covo di un superlatitante, nel quale è scritto
che nella ‘ndrangheta calabrese “la donna è sottomessa
alle decisioni della ‘famiglia’, anche se essa non potrà
mai essere un’affiliata”.
“Con il passare degli anni – è scritto nel codice – il
suo ruolo è cambiato in quanto è divenuta meno
remissiva, certo non sarà mai partecipe delle situazioni
di ‘ndrangheta, ma è diventata la confidente del proprio
uomo e pertanto custodisce taluni segreti a lui utili”.
Andando al
cuore del problema, una realtà amara da digerire e dura
da accettare per i calabresi concerne il fatto che
questa organizzazione così potente, così crudele e
cruenta ha il suo cuore proprio in Calabria.
Questa
verità fa sì che vecchie etichette non siano affatto
sparite ma si siano, a scapito dei tanti calabresi
onesti, circoscritte. Se l’equazione
Italia=pizza=maccheroni può forse anche far sorridere,
non vale per il binomio Italia-Mafia, ora confluito
nell’etichetta Calabria-Mafia. Basta scorrere alcuni
titoli di giornali all’estero, poco lusinghieri, per
rendersi conto dell’abisso morale e sociale in cui è
sprofondata una delle più belle regioni d’Europa.
“Nella
zona di Reggio Calabria – precisano gli autori − quasi
tutti i ‘locali’ dispongono di armi e di uomini pronti
ad usarle. Le attività più redditizie continuano ad
essere il traffico di droga, il commercio di armi, lo
smaltimento dei rifiuti tossici e nocivi, il racket
delle estorsioni e le infiltrazioni nei vari settori
dell’economia legale”.
Senza
sottovalutare, niente affatto, le altre province
calabresi. La ‘ndrangheta – com’è spiegato in
Fratelli di sangue − prese inizialmente piede nella
provincia di Reggio Calabria nella seconda metà
dell’Ottocento, ma dagli anni Sessanta si è espansa in
tutte le province della Calabria, anche laddove prima
era del tutto assente”.
La vocazione inizialmente agropastorale, tratto
distintivo che l’accomuna a Cosa Nostra, ha fatto sì che
si sviluppasse senza troppo attirare i mass media e la
repressione poliziesca e giudiziaria. Obiettivo che ha
raggiunto grazie soprattutto all’impenetrabilità,
all’affiliazione e all’omertà, che sono le prerogative
di fondo su cui si basa l’intera organizzazione mafiosa.
Ciò ha rappresentato una difficoltà per comprenderne la
struttura, il funzionamento e i relativi progetti
criminosi. Difficoltà che le ha garantito una lunga e
prospera sopravvivenza.
Fattori che hanno contribuito allo sviluppo
dell’organizzazione: la morfologia del territorio; una
storia caratterizzata da frequenti invasioni e quindi da
atteggiamenti di chiusura e diffidenza nei confronti
delle infiltrazioni esterne; un sistema relazionale in
cui prevale il clan familiare; livelli perduranti
elevati di fame, miseria e disoccupazione.
Il vincolo di sangue, com’è messo in evidenza dagli
autori, è il distintivo di base dei gruppi mafiosi
calabresi. Il vincolo di sangue, scrivono, “tende ad
imporsi su ogni altro tipo di relazione, e col tempo
avvolge in modo sempre più vincolante tutti i membri del
gruppo criminale, data la pratica sempre più diffusa dei
matrimoni interni ai gruppi mafiosi − una vera e propria
“endogamia di ceto” − che caratterizza soprattutto la
mafia di Reggio Calabria e la rende sempre più chiusa
alle influenze ed ai contatti con la società legale”.
'Ndrangheta, un termine intessuto di sangue, violenza,
brutalità, almeno etimologicamente, com’è spiegato nel
libro, potrebbe derivare da andraghatos,
sostantivo greco che indicava l’uomo coraggioso, valente.
Nel periodo della Magna Grecia individui valenti e
coraggiosi avevano, infatti, dato vita alle cosiddette
hetairiai, associazioni segrete formate da cittadini
appunto valenti e coraggiosi che per conseguire i loro
scopi usavano però l’intimidazione e la minaccia fisica.
Secondo un’altra etimologia potrebbe derivare dal
toponimo Andragathia Regio che in un documento
cartografico risalente al 1595 designava una vasta area
del Regno di Napoli, comprendente Calabria e Basilicata.
Documenti storici, riportati nel libro, individuano
l’origine della criminalità calabrese nella metà
dell’Ottocento. Nel luglio del 1861 le carceri di Reggio
Calabria erano infestate di camorristi.
L’influenza della camorra è sostenuta anche dal fatto
che, inizialmente, i soldati della ‘ndrangheta erano
chiamati per l’appunto camorristi. La camorra a sua
volta avrebbe tratto spunto dalla Garduna,
un’associazione fondata a Toledo intorno al 1417.
Un’altra ipotesi indica l’influenza di Cosa Nostra
siciliana, ipotesi avvalorata dal fatto che
l’organizzazione stessa era conosciuta sotto il nome di
“onorata società”.
Nata,
dunque, a metà dell’Ottocento, la ‘ndrangheta si afferma
nei successivi anni Cinquanta e Sessanta anche per gli
scarsi appoggi alla repressione da parte dello Stato e
si impone in tutta la regione.
La
‘ndrangheta oggi è ben radicata in tutte le cinque
province calabresi: Reggio Calabria, Catanzaro, Cosenza,
Crotone, Vibo Valentia; nel resto d’Italia è penetrata
via via seguendo i flussi migratori dei calabresi onesti
e laboriosi ed è attualmente presente in 15 regioni
(Piemonte, Lombardia, Valle d’Aosta, Liguria, Trentino
Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia
Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e
Molise, Puglia, Basilicata, Sicilia) ed ha collegamenti
con realtà criminali di altre tre.
Non
continua solo a dominare lo scenario calabrese, ma ha
intessuto rapporti con organizzazioni di altri
continenti. Il suo “regno” include l’Australia,
l’America, l’Europa, l’Africa.
La mafia
calabrese ha superato – come spiegano Gratteri e Nicaso
− Cosa Nostra siciliana divenendo regina mondiale
incontrastata del traffico di cocaina dal Sud America
verso l’Europa.
In una
conversazione intercettata nel 1996 – scrivono gli
autori nelle Conclusioni
− un esponente di una cosca ha sintetizzato
efficacemente la forza di questa organizzazione
criminale: “Abbiamo il passato, il presente ed il
futuro”, ha detto.
“Non
esagerava − affermano Gratteri e Nicaso −, almeno sul
passato e sul presente. Nel futuro, per cambiare le
cose, c’è bisogno di fatti concreti, di iniziative
coraggiose, di svolte radicali. Nella società, nella
mentalità della gente, nell’impegno della classe
politica. La voglia di riscatto, soprattutto, quella
delle nuove generazioni, non manca”.
Cfr. ivi, p. 167, p. 183.
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